Se realizzassi un mio clone con l’IA, cosa gli succederebbe dopo la mia morte? Ne parlano W. D’Alessandro, T. W. Ford e M. Yankoski del William & Mary College nell’articolo I Contain Multitudes: A Typology of Digital Doppelgängers, pubblicato per l’American Journal of Bioethics.
Problemi tecnologici
L’articolo non si sofferma sulle tante difficoltà tecnologiche legate all’ipotesi della creazione di un clone. Ne citiamo due per fornire un esempio dei temi che il paper avrebbe potuto affrontare:
- come si trasferisce a un software la mia identità? Perché sia una mia replica, il clone dovrebbe tener conto dell’insieme di tutte le mie esperienze, conoscere i miei progetti e le mie aspirazioni, sapere quali sono le mie paure. Questo ‘materiale’, conservato nella impenetrabile scatola nera di quella che genericamente potremmo chiamare ‘la mia mente’, può essere trasferito solo a patto che io riesca a trovare un modo efficace per raccontarlo, per rappresentarlo fuori di me e farlo registrare.
- come si garantisce la persistenza tecnologica del mio clone? Tra cento anni ci saranno ancora hardware capaci di ‘far girare’ la mia rappresentazione o succederà quello che avviene oggi con le cassette musicali o i VHS degli anni ‘80
Sopravvivenze
Come detto, non sono queste le domande che si pone l’articolo ma un’altra, per certi versi ancora più inquietante.
Poniamo che si riesca a realizzare un mio clone perfetto, che riproduca integralmente la mia esperienza psichica. Dopo la mia morte, gli verrà impedito di fare nuove esperienze o potrà ancora interagire con il mondo? Per esempio, quando i miei pronipoti chiederanno del bisnonno, sarà fatto vedere loro il mio clone nello stato in cui era quando sono morto o al punto in cui è arrivato dopo dieci o vent’anni, interagendo con persone che io non ho potuto incontrare e venendo a conoscenza di avvenimenti che io non ho potuto vedere?
Un cimelio di famiglia
Il clone-fotografia, fermo cioè alla mia morte, avrebbe poco senso perché non sfrutterebbe appieno le nuove tecnologie; ma anche il clone-in evoluzione pone un problema nuovo, soprattutto se lo si pensa – come fanno gli autori dell’articolo – come un family heirloom, cioè un ‘cimelio di famiglia’.
Nel guardare una vecchia fotografia o un video di qualcuno che non c’è più, a noi è delegata tutta la parte di ricostruzione: siamo noi che, pensando a quello che ricordiamo di quella persona, proveremmo a dire come si comporterebbe in una certa circostanza e cosa direbbe. È l’esercizio creativo, nostalgico e un po’ poetico che, da sempre, ci consola e ci aiuta a superare l’assenza.
Che effetto (ci) fa l’idea invece di poter interrogare quella foto o quel video? Chiederle di risponderci, di interagire con noi nel tempo, di non scomparire mai? Vorremmo bene a quel clone tanto quanto ne volevamo al suo originale? Come reagiremmo se il clone ci rispondesse col tono fastidioso e supponente che quel nostro amico ogni tanto usava e che, quando era vivo, ci aveva fatto tante volte litigare? Dinanzi alla paura del distacco, e pur di non accettarlo, ci basterebbe e ci consolerebbe questa immortalità delegata a un software?
Tante volte, nel pensare a chi non c’è più, ci fa star bene indossarne metaforicamente i panni; provare a pensare ‘come se’ fossimo lui o lei, attribuendo alle persone alle quali volevamo bene pensieri e riflessioni che forse non avrebbero mai fatto ma che ci fanno compagnia, in un dolce dialogo interiore che smussa i contrasti che furono e rende accettabili anche i difetti.
È interessante chiederci se siamo pronti all’idea di un ricordo parlante, a delegare a un software questa operazione, spesso fantasiosa ma sempre consolatoria, di dare noi voce al passato.
“Essere immortale è cosa da poco: tranne l’uomo, tutte le creature lo sono,
giacché ignorano la morte; la cosa divina, terribile, incomprensibile,
è sapersi immortali”
L’immortale, J. L. Borges.
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