Un esempio di Public Humanities:
la Public History

Uno degli esempi più interessanti delle pratiche informative e performative del Public Engagement e di Public Science applicata alle Humanities (vedi → Glossario) è la Public History (PHist). La storia è già sempre e costantemente parte del dibattito pubblico, a prescindere dalle iniziative di engagement (Szreter 2004, p. 222). Eventi storici vengono continuamente utilizzati nelle pubblicità, dai politici o nella conversazione quotidiana come elementi del discorso pubblico, menzionati ovviamente non in una prospettiva scientifica e rigorosa ma in formulazioni o manualistiche e scolastiche, frutto più di luoghi comuni che di competenze reali, o in vere e proprie ricostruzioni immaginarie e, talvolta, intenzionalmente tendenziose.

Potremmo dunque dire che di fatto esiste già una PHist, cioè che avvenimenti e personaggi storici fanno già stabilmente parte dell’immaginario pubblico, ma che essi lo abitano in modo superficiale e – per dirla con Walter Lipmann (puoi leggere qui il mio articolo su cosa significhi oggi ‘opinione pubblica’) – stereotipato. Una delle prime finalità di una PHist, considerata nella sua modalità  informativa, è dunque la produzione di una PHist ‘buona’ che, dai festival (Catastini 2011) ai  podcast (Salvatori 2009), attraverso la divulgazione e la disseminazione  di una conoscenza storica il più possibile fondata e rigorosa metta a disposizione del pubblico una serie di dati verificati e stabili e decostruisca falsi immaginari.

Costruire storia condivisa

La natura stessa del sapere storico rende particolarmente interessanti le attività di una PHist performativa, nella quale cioè il pubblico sia chiamato a partecipare attivamente. Nell’ambito delle scienze della natura, l’engagement del pubblico è spesso realizzato tramite la raccolta di dati sul territorio: monitoraggio tramite foto delle specie presenti in una determinata area, analisi dei dati di inquinamento ambientale, etc.. La PHist performativa si muove nella medesima direzione; ai diversi individui coinvolti viene infatti chiesto di cercare e condividere testimonianze, anche personali e appartenenti alla tradizione familiare, che possano ampliare il materiale informativo su una determinata epoca o su uno specifico avvenimento: foto, lettere private, comunicazioni ufficiali, oggetti d’uso quotidiano, testimonianze orali, etc. Il risultato cui giunge l’engagement prodotto da una PHist performativa è dunque la costruzione concreta di una memoria condivisa tanto nei procedimenti di raccolta delle informazioni quanto nel ‘controeffetto’ che il risultato della ricerca produce sulla comunità che, proprio nel partecipare attivamente al reperimento di fonti documentarie, si descrive capace di contribuire all’approfondimento dei percorsi di formazione della sua stessa identità (Ridolfi 2017; Cauvin 2018). Il presupposto da cui muove una PHist performativa è dunque che la storia non è solo il racconto dei macroavvenimenti ‘notevoli’, quelli cioè che in maniera globale caratterizzano momenti specifici o intere epoche, ma si compone anche delle ricadute che, localmente, i grandi scenari hanno sulle esistenze dei singoli o delle comunità.

La storia non è solo il racconto dei macroavvenimenti ‘notevoli’, quelli cioè che in maniera globale caratterizzano momenti specifici o intere epoche, ma si compone anche delle ricadute che, localmente, i grandi scenari hanno sulle esistenze dei singoli o delle comunità

 

Una PHist si presenta dunque, nella sua declinazione performativa, come una attività bifronte, capace di guardare ai grandi scenari globali ma fortemente ancorata al territorio e alle sue testimonianze, e costituisce in ciò una sorta di best practice per le Public Humanities in generale. Anche l’archeologia, la sociologia, l’archivistica, la storia dell’arte, l’antropologia e persino la storia della letteratura, se per un verso tentano di avere una intelligenza complessiva di vasti fenomeni culturali, possono per un altro coinvolgere il pubblico attivamente nella raccolta di dati (segnalazione di reperti archeologici e artistici non individuati o non valorizzati, documenti d’archivio non censiti, testimonianze relative alla tradizione non conosciute, elementi biografici e contestuali degli autori non registrati, etc.) fortemente legati alla interazione locale con il territorio. Gli ‘oggetti’ che queste discipline studiano (avvenimenti, documenti, reperti, etc.), infatti, si presentano al ricercatore come finestre del passato, punti di osservazione particolare dai quali dare uno sguardo a fenomeni generali. Il ‘territorio’ che queste discipline studiano sono le forme della storia dell’esistenza dell’umanità, una ‘regione’ di avvenimenti generali e globali che però sono stati  concretamente abitata nei secoli da singoli individui, le cui tracce diventano, nel tempo, testimonianze e documenti che possono contribuire tutte alla miglior definizione del quadro generale.

 

Da leggere
  • Catastini, F., I festival di storia: una via italiana alla Public History?, in Memoria e ricerca: Rivista di storia contemporanea, 37 (2011), pp. 143-154.
  • Cauvin T,. The Rise of Public History: An International Perspective, in Historia Crítica, 68 (2018), pp. 3-26.
  • Ridolfi M., Verso la Public History. Fare e raccontare storia nel tempo presente, Pisa 2017.
  • Salvatori E., Hardcore history: ovvero la storia in podcast. Analisi del podcasting dedicato ad argomenti storici in lingua inglese, francese, italiana e spagnola, in Memoria e ricerca: rivista di storia contemporanea, 2009.
  • Szreter S., History and Public Policy, in The Public Value of Humanities, London – New Yoirk 2011, pp. 219-231.

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